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Lavoratore stressato e insoddisfatto? Dimissioni annullabili

FATTO

Un ex dipendente di un Comune rassegnava le proprie dimissioni dall’impiego e, successivamente, le revocava. Tale revoca (giustificata da una presunta incapacità naturale del dimissionario) non veniva ritenuta ammissibile e quindi l’ex dipendente adiva il Tribunale chiedendo di accertare l'efficacia della revoca in questione (e/o la declaratoria di invalidità o inefficacia delle dimissioni stesse). Stante il rigetto della domanda, veniva interposta impugnazione alla sentenza di primo grado ma anche la Corte d'appello di Bologna, respingeva la domanda (sulla base del fatto che il CTU nominato in appello, nonostante avesse rilevato che, anche se il dimissionario mostrava un notevole turbamento psichico pure nel momento della presentazione delle dimissioni tuttavia egli non si trovava in quel momento in condizioni di totale esclusione della capacità psichica e volitiva e quindi in condizioni di incapacità naturale).

SENTENZA

Dimissioni annullabili del lavoratore stressato e insoddisfatto?

Ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente e da far venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza dell'importanza dell'atto che sta per compiere.
Ne consegue che sono annullabili le dimissioni rassegnate dal dipendente durante un periodo di forte stress e insoddisfazione lavorativa che, pur non essendo idonei ad escludere completamente la sua capacità di intendere e di volere, impediscano la formazione di una volontà cosciente e consapevole delle effettive conseguenze che derivano dalla rinunzia al posto di lavoro.
Questo è quanto affermato dalla recente sentenza 30126 del 2018 della Corte di Cassazione che ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Bologna la quale, pur riconoscendo la sussistenza di patologie contratte dal dipendente e diagnosticate dai medici, come originate dallo stress e dall'insoddisfazione nel lavoro, non ha ritenuto tale complessivo quadro clinico rilevante per la qualificazione della situazione del lavoratore al momento delle dimissioni come di incapacità naturale, anche se, secondo la relazione del CTU, il lavoratore in quel momento mostrava un notevole turbamento psichico.
Né la Corte territoriale ha considerato la natura di negozio giuridico unilaterale delle dimissioni, posto in essere dal lavoratore e avente come conseguenza la rinunzia del posto di lavoro, bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cost., che oltretutto nel caso concreto era foriero di un accertato sicuro pregiudizio per l'interessato e la sua famiglia.

Con un’articolata motivazione, la Corte di Cassazione – riprendendo principi giurisprudenziali consolidati - ha affermato che:

a) ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere costituente causa di annullamento del negozio (nella specie, dimissioni), non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'importanza dell'atto che sta per compiere;
b) l'incapacità naturale consiste in ogni stato psichico abnorme, pur se improvviso e transitorio e non dovuto a una tipica infermità mentale o a un vero e proprio processo patologico, che - con riguardo al momento in cui il negozio è posto in essere - abolisca o scemi notevolmente le facoltà intellettive o volitive, in modo da impedire od ostacolare una seria valutazione degli atti che si compiono o la formazione di una volontà cosciente;
c) la prova dell'incapacità naturale può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità.

Per le sopra esposte ragioni la Suprema Corte ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Bologna affermando il seguente principio di diritto: «ai fini della sussistenza di una situazione di incapacità di intendere e di volere (quale prevista dall'art. 428 cod. civ.) costituente causa di annullamento del negozio, non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all'importanza dell'atto che sta per compiere. Peraltro, laddove si controverta della sussistenza di una simile situazione in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato il relativo accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni, comportano la rinunzia del posto di lavoro - bene protetto dagli artt. 4 e 36 Cast. - sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l'incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto stesso».

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fonte altalex


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