Il lavoratore depresso può svolgere attività ludiche e ricreative durante il periodo in cui è in malattia? Il dipendente in malattia per depressione può uscire di casa o no?
Respinto il ricorso di un'azienda che aveva fatto prima pedinare e poi licenziato il dipendente. La malattia neurologica del dipendente non preclude la possibilità di svolgere attività con esso compatibili.
È cosa nota che il dipendente che non si reca sul posto di lavoro, perchè in malattia, possa uscire di casa solo in determinati orari e solo purché i suoi comportamenti siano compatibili col proprio stato di malattia, dunque non pregiudichino in nessun modo la sua guarigione e quindi non ritardino il rientro a lavoro.
Secondo il sentire comune, egli deve restare a casa negli orari della reperibilità, in modo da consentire lo svolgimento di una eventuale visita medica di controllo (la visita fiscale dell’Inps) e da evitare eventuali provvedimenti disciplinari.
Ma quando il lavoratore è depresso? Può uscire?
Col termine depressione,si intende una “sensazione di tristezza così intensa da compromettere le normali attività di una persona e/o il suo interesse o piacere per le attività. Può essere dovuta a una perdita o a un altro evento drammatico ma è una reazione eccessiva rispetto all’evento scatenante, che dura più tempo del normale.”
Viene automatico pensare che, in tale condizione, tutto possa essere consigliato fuorché chiudersi in casa chissà per quanti giorni ad aspettare un eventuale controllo. E infatti è così: i medici consigliano spesso ai propri pazienti di rilassarsi, di intraprendere diverse attività ludiche e ricreative, di uscire di casa e di stare il più possibile all’aria aperta perché tutto ciò è funzionale alla guarigione.
Quindi cosa deve fare il lavoratore depresso? Si esce di casa e ci si va a divertire rischiando di non farsi trovare a casa dal medico fiscale? Oppure ci si tumula tra quattro mura, aggravando con ogni probabilità la propria depressione?
IL FATTO – La Corte d’Appello di Napoli, in conformità alla sentenza del locale Tribunale, rigettava il ricorso promosso da una società datrice di lavoro avverso la statuizione di primo grado con cui era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento inflitto ad un dipendente che aveva svolto attività ricreative, che secondo il datore di lavoro, incompatibili con il suo stato di salute, proprio durante il periodo di assenza per malattia (sindrome ansioso depressiva). In particolare la Corte d’Appello escludeva la violazione del principio di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà; violazione che secondo il giudice di secondo grado si verificherebbe, così giustificando il recesso del datore di lavoro, nell’ipotesi in cui l’attività svolta dal dipendente fosse di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando una fraudolenta simulazione, e nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio.
Avverso la sentenza d’appello, la società datrice di lavoro ha interposto ricorso per Cassazione.
CORTE di CASSAZIONE – La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso precisando che «anche alla stregua del concetto di malattia ex art. 32 della Costituzione, la patologia considerata dall’art. 2110 Cod. Civile, va intesa non come stato che determini la impossibilità di svolgere in assoluto qualsiasi attività, ma come stato impeditivo delle normali prestazioni lavorative del dipendente; di guisa che, nel caso di un lavoratore assente per malattia il quale sia stato sorpreso nello svolgimento di altre attività, spetta al dipendente, indubbiamente secondo il principio sulla distribuzione dell’onere della prova, dimostrare la compatibilità di dette attività con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, la mancanza di elementi idonei a far presumere l’inesistenza della malattia e quindi, una sua fraudolenta simulazione, e la loro inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie psico – fisiche, restando peraltro la relativa valutazione riservata al giudice del merito all’esito di un accertamento da svolgersi non in astratto, ma in concreto, con giudizio ex ante.»
Dunque il giudice è correttamente pervenuto alla conclusione che «i comportamenti assunti dal lavoratore nel periodo di assenza per malattia erano compatibili con la diagnosi di una patologia di natura neurologica (…). Ha escluso, quindi, (…) fosse emerso che la diagnosi della patologia neurologica con prescrizione di quindici giorni di riposo, fosse il frutto di una progettazione fraudolenta e che i comportamenti assunti dal lavoratore si ponessero in condizione di incompatibilità rispetto alla guarigione ovvero solo si atteggiassero in termini di mero ostacolo ad una rapida soluzione dell’episodio morboso».
SCARICA LA SENTENZA→Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 9647/2021←
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