Infezioni nosocomiali. L'obbligo di assicurazione previsto dalla Legge Gelli
Una delle novità più rilevanti introdotte dalla legge 24/2017, più nota come Legge Gelli, consiste nella parificazione delle strutture sanitarie di ogni ordine, sul piano della responsabilità medica. La legge impone infatti a tutte le aziende sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, di essere provviste di un'adeguata copertura assicurativa, o di altre analoghe misure, per l'assicurazione della responsabilità civile verso terzi e prestatori d'opera.
Fatta eccezione per il riferimento alle analoghe misure, con il quale si è voluta ribadire l'ammissibilità delle forme di autoassicurazione (o meglio, non assicurazione) adottate assai comunemente in Italia negli ultimi anni, la norma ha finalmente allineato il nostro sistema a quanto già in vigore in molti paesi dell'Unione Europea, nei quali – in applicazione della cosiddetta vicarious liability, in qualche modo equivalente al nostro concetto di committenza - qualunque struttura che svolga attività sanitaria è obbligata a proteggere i propri collaboratori e dipendenti e soprattutto i propri pazienti, per i danni che questi dovessero subire nel corso del loro ricovero o in seguito alle cure loro impartite.
In ogni caso, tutte le strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche o private, sono obbligate in base ad una responsabilità della quale si ribadisce la natura contrattuale. Ciò è anche mutuato dall'esigenza di garantire le migliori cure possibili, mediante una sempre più attenta e migliorata gestione del rischio, così come statuito già nei primi due articoli della legge.
Com'è noto, la principale conseguenza dell'inquadramento della responsabilità della struttura sanitaria come contrattuale riguarda il profilo dell'onere probatorio, il che comporta ricadute pratiche notevoli sul tema del risk management. Come è ormai noto, infatti, in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell'interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l'obbligazione (perseguimento delle "leges artis" nella cura dell'interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicché, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l'inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione ( Cass. civ., , sent. n. 2899/2019).
La responsabilità contrattuale, infine, prevede il più ampio termine di prescrizione decennale, che comporta una ulteriore difficoltà a provare la qualità dei propri adempimenti da parte della struttura stessa.
Varietà dei profili di rischio nelle strutture private
Secondo gli ultimi dati forniti dal Ministero della Salute e riferentisi all'anno 2017 (Annuario Statistico del Servizio Sanitario Nazionale, Assetto organizzativo, attività e fattori produttivi del SSN, Anno 2017), la distribuzione delle strutture per tipologia di assistenza erogata (ospedaliera, specialistica ambulatoriale, territoriale residenziale, territoriale semiresidenziale, altra assistenza territoriale e riabilitativa) e per natura (pubblica e privata accreditata), prevede una leggera maggioranza delle strutture pubbliche che erogano assistenza ospedaliera, rispetto a quelle private accreditate, con il 51,8%, rispetto al 48,2%.
Sono invece in maggioranza le strutture private accreditate che erogano assistenza territoriale residenziale, con oltre l'82% e semiresidenziale (68,6%) e le strutture che erogano assistenza riabilitativa (77,9%).
Questi numeri non comprendono le strutture private non accreditate, ma esse rappresentano solo una minima parte, seppure in crescita, del complesso.
In genere, si osserva già da tempo una concentrazione dei servizi clinici più complessi nell'ambito pubblico ed un graduale e costante aumento del numero delle strutture private di tipo socioassistenziale. È questo un fenomeno sempre più eclatante, in un paese che tende ad invecchiare, al punto che in questo campo si registrano anche cospicui investimenti da parte di società straniere.
La qualità della gestione di tutti questi rischi passa necessariamente attraverso l'analisi dell'attività che la struttura svolge, in base al numero ed al tipo di professionisti sanitari che operano al suo interno, rapportato al numero di letti occupati ed al tipo di collaborazione che lega la struttura stessa ai suoi dipendenti.
Ogni attività presuppone livelli di rischiosità diversi, in base al numero ed alla tipologia dei danni che è possibile causare ai pazienti, ovvero a seconda che l'esposizione sia più orientata verso la frequenza o non implichi piuttosto danni da severità.
In statistica, si intende per frequenza il numero delle unità in cui si presenta una determinata modalità della variabile oggetto di rilevazione. In ambito assicurativo, essa è la percentuale degli eventi dannosi che, in un determinato periodo, colpiscono una polizza. Definiamo dunque frequenza l'indice di variazione del numero dei sinistri occorsi nel tempo: maggiore è il numero di sinistri che occorrono in un dato periodo e più alta sarà la frequenza che li interessa, indipendentemente dall'ammontare di ogni singolo sinistro occorso, che ne definisce, invece, la severità o gravità.
Tutti questi fattori vanno poi rapportati alle complessità delle regolamentazioni che interessano ciascun tipo di struttura e che impongono di rispettare misure che garantiscano la sicurezza, non solo dei pazienti trattati, ma anche del personale loro dedicato.
Solitamente, si provvede anche ad un raffronto della struttura analizzata con altre simili ad essa, alla luce del programma di risk management adottato. Le differenze vengono generalmente marcate dall'applicazione di coefficienti di rischio diversi, che indicano la maggiore o minore urgenza di eventuali interventi da adottare per raggiungere il risultato sperato sul piano del miglioramento della qualità del rischio stesso.
Il danno da infezione nosocomiale
Com'è emerso dalla cronaca che ha interessato gli ultimi mesi, la pandemia da Coronavirus ha posto l'intero sistema sanitario (non solo in Italia) di fronte ad una precisa marcatura dei diversi profili di responsabilità civile a carico delle strutture sanitarie, in conseguenza della diffusione delle infezioni da Coronavirus contratte presso le strutture stesse.
Gli ospedali hanno infatti finito per divenire uno dei motori di propagazione del virus, il che pone ancora una volta al centro del sistema della responsabilità medica loro attribuibile le problematiche relative alla prevenzione e gestione del rischio, in particolare in merito alla responsabilità organizzativa della struttura sanitaria stessa, in questo caso con riferimento specifico al danno da infezione nosocomiale.
Per quanto l'epidemia da CoVid-19 possa essere considerata un elemento di “forza maggiore” ai fini della valutazione di una sopravvenuta infezione e nonostante si sia parlato, con un emendamento poi ritirato in sede di conversione del Decreto Cura Italia, di limitare la responsabilità degli operatori e degli enti in cui lavorano, bisogna comunque tenere presente che, dal momento in cui l'infezione è stata considerata infortunio sul lavoro, la struttura sanitaria ha comunque il dovere di prevenirla, in ottemperanza al disposto del d.lgs. n. 81/2008.
Il primo problema che ci poniamo è però quello di inquadrarla e definirla come infezione nosocomiale. Quest'ultima insorge nel corso del ricovero ospedaliero, non essendosi manifestata clinicamente al momento dell'ingresso del paziente, e per definizione si rende evidente generalmente dopo almeno 48 ore dal ricovero stesso, o durante le ore successive alla dimissione.
In ogni caso, le infezioni nosocomiali sono causalmente riferibili, per tempo di incubazione, agente eziologico e modalità di trasmissione, al periodo stesso del ricovero e costituiscono un problema assai critico per la loro elevata frequenza e per le conseguenze anche gravi che determinano. Esse risultano anche difficilmente evitabili, al punto da aver determinato negli ultimi anni un cospicuo contenzioso giudiziario, a causa delle numerosissime richieste di risarcimento pervenute dai pazienti e loro aventi diritto.
Nel solo triennio compreso tra il 2008 ed il 2010, sono state contratte complessivamente 2.269.045 infezioni (equivalenti al 5-8% dei ricoveri), con 22.691 decessi e un costo a carico del Servizio Sanitario Nazionale che oscillerebbe tra 4.8 e 11.1 miliardi di euro, secondo i dati forniti da FNOMCEO. Tutte cifre statisticamente in aumento, per varie ragioni sulle quali non possiamo dilungarci in questo momento.
Nel caso della diffusione dell'epidemia da Covid-19 avvenuta proprio nell'ambito delle strutture sanitarie, di fronte all'indiscussa abnegazione ed al sacrificio personale dei sanitari, duole assai dirlo, ma non è possibile non nutrire dubbi sull'adeguatezza degli strumenti adottati dalle strutture stesse, che avrebbero dovuto invece essere finalizzati a prevenire o fronteggiare una simile eventualità.
Le criticità affrontate dalle RSA per garantire la continuità assistenziale
Le residenze sanitarie assistenziali, o RSA, furono introdotte nel nostro sistema negli anni ‘90 ed in particolare a partire dal d.lgs.30 dicembre 1992 n. 502 e poi dal d.lgs. 7 dicembre 1993 n. 517, con l'approvazione del Piano Sanitario Nazionale per il triennio 1994-1996.
Sono costituite da strutture che ospitano persone generalmente non autosufficienti, per periodi variabili da poche settimane ad un tempo indeterminato. Si tratta di pazienti che non possono essere assistiti in casa e necessitano di cure mediche, o comunque di assistenza sanitaria. Generalmente, le RSA si differenziano dalle strutture riabilitative per la minore intensità delle cure sanitarie erogate e per i tempi più prolungati di permanenza degli assistiti, che in relazione al loro stato psico-fisico possono in alcuni casi essere ospitati permanentemente.
Esse accolgono inoltre le cosiddette dimissioni protette, ovvero forniscono il loro servizio quando pazienti curati presso le strutture ospedaliere vengano da queste dimessi, ma necessitino ancora di interventi terapeutici per garantire la cosiddetta continuità assistenziale.
La dimissione protetta è un'importante componente del processo assistenziale, che si realizza con l'intervento integrato dei professionisti sanitari presenti nell'ospedale e nel territorio, in collaborazione col medico di famiglia e con i servizi sociali comunali.
Durante la degenza ospedaliera, il personale del reparto segnala all'infermiere territoriale l'eventuale condizione di fragilità di un determinato paziente. Questi provvede generalmente ad una valutazione approfondita del bisogno assistenziale dello stesso e pianifica gli eventuali interventi sanitari necessari per il suo rientro a domicilio.
Per poter garantire la continuità assistenziale, la dimissione verrà quindi concordata tra gli operatori dell'ospedale e del territorio, il medico di medicina generale (o il pediatra di libera scelta) e la famiglia dell'assistito.
Nel corso della crisi determinata dalla pandemia da Covid-19, un gran numero di pazienti ancora ammalati, in alcuni casi ancora soggetti a ventilazione assistita, sono stati trasferiti in condizione di dimissioni protette nelle RSA presenti nel territorio, allo scopo di alleggerire il numero ormai insostenibile di malati ricoverati nei reparti di rianimazione e terapia intensiva degli ospedali. Questi soggetti sono quindi venuti in contatto con persone anziane e già sofferenti, all'interno di strutture che, soprattutto in una prima fase, non erano organizzate per fronteggiare la diffusione del virus.
Le conseguenze di queste iniziative hanno determinato la propagazione del Coronavirus sui soggetti maggiormente esposti e delicati, con le ripercussioni che ben conosciamo e la necessità, da parte di queste strutture, di dover provare il loro corretto e diligente adempimento e la riconducibilità dell'infezione a cause loro non imputabili. Ciò risulta purtroppo particolarmente complesso nelle infezioni nosocomiali, che per loro caratteristica rendono molto difficile risalire all'effettivo responsabile della loro diffusione.
La molteplicità dei fattori che determinano l'infezione nosocomiale, infatti, rende assai difficile individuare la loro causa specifica e determinare il loro antecedente causale, anche perché nelle RSA abbiamo a che fare con soggetti già deboli, come anziani ed immunodepressi, spesso già colpiti da altre patologie e infezioni, il che complica ulteriormente la possibilità di tracciarne l'origine. Tutto ciò ha profondi effetti sul piano giuridico, ogni qual volta si voglia provvedere ad una corretta ripartizione dell'onere probatorio tra paziente e struttura e allo scopo di accertare la responsabilità di quest'ultima.
Quali caratteri dovrà dunque avere la prova fornita dalla struttura ospedaliera, al fine di potersi effettivamente qualificare come “liberatoria”?
Il più recente orientamento giurisprudenziale tende a considerare che, pur nell'alveo della responsabilità contrattuale, l'onere della prova del nesso causale possa mantenersi a carico del creditore-attore, soprattutto qualora la causa del danno resti ignota o sia difficile da determinare. In tal caso, il risarcimento non spetterebbe all'attore e la domanda andrebbe rigettata (si vedano Cass. civ., 26 luglio 2017, n. 18392; Cass. civ., 14 novembre 2017, nn. 26824 e 26825; Cass. civ., 7 dicembre 2017, n. 29315, Cass. civ., 15 febbraio 2018, n. 3704; Cass. civ., 23 ottobre 2018, n. 26700; nonché Trib. Milano, sez. V, est. Damiano Spera, 22 aprile 2008, n. 5305).
Va quindi accertata la sussistenza di una relazione causale tra la prestazione sanitaria e l'infezione e va verificato se la condotta della struttura ospedaliera presenti profili di colpa causalmente ricollegabili al contagio, cioè se quest'ultimo dipenda o meno da una circostanza non imputabile.
Al paziente toccherà provare che all'attività sanitaria è conseguita una patologia non presente prima del ricovero; alla struttura spetterà l'onere di provare che la prestazione erogata sia stata correttamente adempiuta e che la patologia infettiva rappresenta una conseguenza inevitabile (e quindi, per quanto prevedibile, non prevenibile) a lei non imputabile.
Queste strutture sanitarie, insomma, devono oggi dimostrare di aver adottato un modello organizzativo finalizzato ad evitare il rischio di insorgenza dell'infezione da Coronavirus ed ecco che appare chiara la rilevanza della prevenzione del rischio sanitario, che costituisce la sola provaliberatoria del diligente adempimento delle obbligazioni scaturenti dal contratto di spedalità istituitosi tra le RSA ed i loro ospiti.
È opportuno segnalare come le infezioni ospedaliere siano considerate in medicina una complicanza, definita come evento dannoso, astrattamente prevedibile ma difficilmente evitabile.
In ambito giuridico però, le soluzioni percorribili sembrano comunque essere due: o il peggioramento è prevedibile ed evitabile, ed in tal caso porterà all'insorgenza della responsabilità della struttura; oppure esso è imprevedibile ed inevitabile, ed integra in tal modo gli estremi della causa non imputabile, ai sensi dell'art. 1218 c.c. (vedasi Cass. civ., sez. III, 30 giugno 2015, n. 13328 e Cass. civ., n. 33770/2017, nella quale si afferma che le infezioni nosocomiali non sono considerabili come eventi imprevedibili).
Al fine della prova liberatoria, assumerà quindi valore decisivo dimostrare di aver tenuto un comportamento conforme alle leges artis, nel rispetto delle norme e dei regolamenti emanati dal Governo con il Decreto Cura Italia e ponendo in pratica tutti gli strumenti organizzativi idonei a prevenire le infezioni ospedaliere perché i casi verificatisi possano intendersi, appunto, come eventi imprevedibili e inevitabili.
Il risk management nelle RSA, al tempo del Coronavirus
Sarà quindi necessario valutare gli strumenti di protezione posti in essere dalla struttura per prevenire il diffondersi del virus al suo interno, anche perché è difficile dimostrare che l'epidemia e il contagio occorsi nelle RSA abbiano costituito eventi imprevedibili, soprattutto dal momento che la propagazione del Covid-19 era ormai certamente nota alle autorità sanitarie, che avevano predisposto le dimissioni protette di cui si è parlato.
La responsabilità in capo alla struttura si configurerebbe dunque come omissiva, per non aver assicurato misure adeguate ad evitare il contagio al suo interno, all'inizio mediante apposite misure di accettazione, isolamento e distanziamento, e non avendo poi saputo attuare correttamente le previsioni del governo, dopo l'emanazione del Decreto Cura Italia.
Quest'ultimo è assai particolareggiato e contempla un minuzioso elenco di iniziative che ciascuna RSA è obbligata a porre in atto, pena la perdita dell'accreditamento.
Queste prevedono la nomina di un gruppo di referenti per la gestione della pandemia e la definizione di un protocollo di regolamentazione che copra tutte le aree di operatività:
Si rende cioè necessaria una valutazione circa l'adempimento degli obblighi accessori di protezione da parte della struttura, nel rispetto dei modelli organizzativi atti non solo ad impedire il diffondersi del virus al suo interno, ma relativi a tutte le scelte operate per la sua gestione.
La RSA ha quindi l'obbligo di fronteggiare l'emergenza con tutte le risorse organizzative, diagnostiche e terapeutiche disponibili ed ha il dovere di verificare e vigilare, per mezzo di riunioni periodiche dei referenti prescelti, l'attuazione delle disposizioni previste.
Ciò comporta anche l'obbligo di informare pazienti, ospiti e loro parenti dell'eventuale rischio di contrarre l'infezione, in particolar modo per quanto attiene ai soggetti ricoverati da lungo tempo, poiché se questi dovessero contrarre il virus, si tratterebbe di un evento quasi certamente intervenuto all'interno della struttura stessa. Trattandosi poi dei pazienti più vulnerabili, in quanto anziani ed affetti da varie comorbidità, sarebbe assai più necessario predisporre per essi standard di tutela particolarmente elevati.
La ricerca del nesso causale in caso di decesso
Alla luce della grande difficoltà a rintracciarne con sicurezza le cause delle infezioni nosocomiali in genere, la questione diventa particolarmente delicata qualora un paziente di una RSA deceda per Coronavirus, proprio perché questa infezione presenta un alto tasso di mortalità nei soggetti già affetti da altre patologie.
L'art. 41 del codice penale spiega che un evento letale non può ritenersi collegato casualmente ad una prima origine, quando una causa sopravvenuta è da sola in grado di produrre la morte, rendendo le altre concause mere occasioni, non connotate da una loro autonomia.
La giurisprudenza in tema di infezioni ospedaliere (inter alia, Cass. pen. ,sez. IV, n. 33770/2017) ha però affermato che le infezioni nosocomiali non sono sempre idonee ad interrompere il nesso con la prima causa, in quanto considerate eventi prevedibili ed evitabili, perché tipiche conseguenze della permanenza all'interno della struttura.
Ma può l'infezione da Covid-19 essere inquadrabile come un elemento “tipico”, in particolare all'interno di strutture come le RSA? Rispetto alla categoria generale delle infezioni nosocomiali, quella da Coronavirus presenta determinate peculiarità, anche perché sappiamo che essa non ha certo avuto origine all'interno delle strutture.
D'altro canto, l'allerta per la diffusione del virus risale almeno al 22 febbraio scorso, quando il Ministero della Salute ha emanato la prima circolare contenente la normativa obbligatoria per le strutture sanitarie: se tali regole non fossero state rispettate, ciò determinerebbe in ogni caso una precisa responsabilità da parte della struttura.
E dunque come inquadriamo la responsabilità delle strutture sanitarie in genere ed in particolare quella delle RSA, nell'ambito della diffusione del virus durante questa pandemia?
È pacifico che ci troviamo di fronte ad una responsabilità di tipo omissivo, per non avere impedito l'ingresso e la diffusione del Covid-19 al loro interno, causando l'infezione dei pazienti ed anche del personale sanitario, ai fini della responsabilità datoriale.
La valutazione del grado di diligenza applicato dalla struttura nell'adottare le necessarie ed obbligatorie misure dettate dalle previsioni ministeriali e dalle best practices, nell'ottica del principio generale di precauzione, giocheranno quindi un ruolo decisivo, ponendo la qualità della gestione del rischio sanitario come determinante per delineare la responsabilità posta in capo alle strutture stesse, anche e soprattutto alla luce del disposto della riforma Gelli, della quale il risk management rappresenta un pilastro portante.
fonte dejure
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