Mobbing lavorativo: facciamo il punto
Il mobbing lavorativo è configurabile ove ricorrano due elementi:
-quello oggettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro,
-quello soggettivo, integrato dall’intendimento persecutorio del datore medesimo; quest’ultimo richiede che siano posti in essere atti, contro la vittima, in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente dal datore o di un suo preposto o di altri dipendenti, comunque sottoposti al potere gerarchico dei primi due.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 32381/19, depositata l’11 dicembre.
Atteggiamenti che sfuggono al rigore del diritto.
Un dipendente di un istituto bancario lamentava di aver subito mobbing, con conseguente danno alla propria salute e vita privata. In particolare, il lavoratore, vice capufficio con mansioni di cassiere terminalista, faceva rilevare di essere stato scavalcato nella progressione in carriera da funzionari più giovani e di essere continuamente “sballottato” in trasferte, anche brevi, che rendevano difficile se non impossibile l’assistenza dovuta al figlio minore, con sindrome down, per la cui cura il lavoratore/padre beneficiava dei permessi ex l. n. 104/1992.
I giudici di merito avevano escluso la sussistenza di mobbing per carenza di deduzioni e prove in merito alla potenza lesiva delle condotte contestate. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ripercorre l’iter logico seguito dai giudici di seconda istanza, facendo il punto sulle caratteristiche del danno da mobbing lavorativo, escludendolo nel caso di specie, per le stesse carenze già rilevate nei precedenti gradi.
L’intento vessatorio.
In prima battuta, la Suprema Corte sgombra il campo da equivoci precisando che il mobbing lavorativo non è necessariamente rappresentato da una serie di comportamenti illeciti, vietati dalla legge, ma può ben essere costituito da atti leciti, ripetuti con intento vessatorio, ossia con animus nocendi. E’ quindi l’intento psicologico di arrecare danno (ingiusto) a rendere rilevanti ai fini del mobbing atti di per sé stessi leciti. In altri termini, azioni lecite, organizzate in sequela, con intento vessatorio, degradano ad azioni illecite, idonee a cagionare un danno che altrimenti non sarebbero in grado di causare.
E quindi l’intento vessatorio a caratterizzare maggiormente la fattispecie del mobbing.
Le componenti.
Chiarita l’assoluta rilevanza dell’animus, la Corte di Cassazione individua gli elementi che devono necessariamente sussistere e coesistere per definire una condotta mobbizzante:
a) i comportamenti di carattere persecutorio (leciti o illeciti) devono essere organizzati in serie, in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo;
b) tali atteggiamenti devono essere posti in essere dal datore di lavoro o da un suo preposto oppure ancora da parte di altri dipendenti, comunque sottoposti al potere gerarchico dei primi;
c) l’insieme degli comportamenti deve essere lesivo della salute, della personalità e della dignità del dipendente;
d) deve sussistere nesso eziologico tra le condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella propria dignità;
e) l’elemento soggettivo, ossia la volontà di arrecare danno, è l’elemento unificante di tutti i comportamenti lesivi.
L’onere probatorio.
La responsabilità per mobbing è collegata strettamente all’art. 2087 c.c., norma di carattere generale che tutela le condizioni di lavoro, imponendo al datore l’obbligo di garantire la salute e l’integrità psico-fisica dei propri dipendenti. Pur se discussa, la responsabilità ex art. 2087 c.c. ha natura oggettiva, in quanto di tipo contrattuale connessa però alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Di conseguenza spetta al lavoratore che lamenti di aver subito un danno l’onere di provare l’esistenza del danno, alla nocività dell’ambiente di lavoro nonché il nesso tra dette circostanze; solo ove il lavoratore abbia dato prova di ciò, al datore spetta l’nere contrapposto di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il danno e che la malattia del dipendente non sia in alcun modo riconducibile all’inosservanza di tali obblighi.
fonte DeJure
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