La sentenza del Tribunale di Termini Imerese del 30/05/2018 n° 465 analizza la responsabilità penale del medico che pratica un trattamento sanitario (anche se salva vita) contro il dissenso espresso del paziente. La sentenza costituisce un’applicazione pratica del noto principio di “alleanza terapeutica” e indica chiaramente, a garanzia degli esercenti la professione sanitaria, i confini dell’intervento medico così come delineati dalla Costituzione e dal codice di deontologia medica che assicurano il diritto alla salute nel pieno rispetto della dignità di scelta del paziente.
In particolare, sotto il profilo tecnico la sentenza qualifica la fattispecie dell’intervento medico contro il dissenso espresso come reato di violenza privata di cui all’art. 610 del codice penale.
Il fatto
La vicenda riguarda una giovane donna al quarto mese di gravidanza alla quale è stata diagnosticata la presenza di calcoli alla colecisti e sabbia biliare che la esponeva al rischio di una pancreatite acuta che poteva essere fatale per lei e il bambino. Per questo i medici programmano un intervento di colecistectomia per via laparoscopica, considerato meno rischioso per il feto. Al momento del suo ingresso ospedaliero, la signora, informata delle sue condizioni cliniche e dei possibili rischi legati all’intervento, per motivi religiosi quale Testimone di Geova rifiuta le emotrasfusioni di sangue intero o dei suoi quattro componenti principali (globuli rossi, globuli bianchi, plasma e piastrine). Inoltre, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi la donna fa anche allegare in cartella clinica le proprie direttive anticipate di trattamento sanitario (DAT) con cui ribadisce il suo rifiuto anche per il caso di pericolo di vita; contestualmente precisava la sua volontà di accettare tutte le possibili alternative, inclusi gli emoderivati (cd. frazioni del sangue). I sanitari procedono con l’intervento programmato e, dopo qualche ora, con un intervento riparatore urgente per arrestare la severa emorragia successiva al primo intervento. Il giorno dopo viene diagnosticata la morte del feto. A causa della forte anemizzazione della paziente i medici ritengono necessario somministrare trasfusioni di sangue che la paziente, cosciente, continua a rifiutare “ostinatamente” (come verbalizzato in cartella clinica). A quel punto il primario si rivolge al pubblico ministero di turno per chiedere l’autorizzazione a trasfondere, rappresentando il pericolo di vita per la paziente e per il feto (la cui morte era stata già accertata da ore!). Il pubblico ministero correttamente risponde di non essere l’autorità competente ad autorizzare un trattamento sanitario coattivo e informa che in caso di intervento illegittimo il sanitario avrebbe potuto rispondere sia civilmente che penalmente, anche qualora l’alternativa all’intervento fosse il decesso del paziente. Nonostante ciò, il primario comunica sia alla paziente che allo staff medico di aver acquisito l’“autorizzazione” del magistrato alla trasfusione e che quindi avrebbe potuto procedere anche contro la volontà della donna. Due infermieri eseguono la trasfusione su ordine del primario, tenendo le ginocchia della paziente (sempre cosciente e vigile) per evitare che facesse movimenti anche inconsulti, tali da intralciare la manovra dell’intrusione dell’ago cannula. In seguito si somministrano altre due emotrasfusioni.
Ricostruita la dinamica dei fatti accaduti, il Tribunale ha ritenuto penalmente responsabile il primario ospedaliero del reato di violenza privata quando ha ordinato che fosse praticata, nonostante il suo espresso dissenso, l’emotrasfusione mettendo in atto tutte le manovre che concretamente sarebbero state necessarie al raggiungimento dello scopo e che erano funzionali a praticare il trattamento sanitario da lui disposto. In questa nota di commento ci concentreremo su questa fattispecie di reato tralasciando la fattispecie relativa all’altro capo di imputazione, il procurato aborto colposo.
Il fondamento giuridico dell’attività medico-chirurgica: il consenso informato
Il Tribunale di Termini Imerese recepisce quindi le conclusioni della giurisprudenza di legittimità secondo cui il consenso espresso dal paziente è vero e proprio presupposto di liceità dell’attività del medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell’ammalato.
Innanzitutto, è stato evidenziato, come del resto acquisito già da risalente giurisprudenza, il recepimento in ambito penale della tesi civilistica del principio consensualistico della legittimazione dell’attività medico-chirurgica fondato sugli artt. 13 e 32 della Carta costituzionale, essendo costituzionalmente presidiato “il valore della persona umana” così come il bene salute, concretamente espressi nella dignità e libertà di scegliere secondo i propri orientamenti di vita, etici o religiosi.
In proposito, viene richiamata la sentenza Cassazione Penale, sez.IV, 11/7/2001, n.35822 (sentenza Firenzani) ove si afferma che la “legittimità in sé dell’attività medica richiede per la sua validità e la sua concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce presupposto di liceità del trattamento chirurgico” afferendo, esso, alla libertà morale del soggetto e della sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica, intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea: tutti profili riconducibili al concetto di libertà della persona, tutelato dall’art.13 Cost.”.
Passa in rassegna poi la successiva Cassazione Penale, sez.I, 29/5/2002, n.26446 (sentenza Volterrani), nella quale si definisce “insuperabile” l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal paziente, ancorché l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e, persino, la sua morte. In tali ipotesi, ha puntualizzato la sentenza, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata in quanto non è consentito al medico “manomettere” il corpo e l’integrità fisica del paziente contro il suo dissenso
Infine, richiama Cassazione Penale, sez.VI, 14/2/2006, n.11640 (sentenza Caneschi) nella quale si ribadisce che l’intervento medico contra volontà determina “arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e, quindi, la sua rilevanza penale, in quanto compiuto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo”.
Il Tribunale di Termini Imerese richiama infine la sentenza Sezioni Unite della Suprema Corte, 18/12/2008, n.2437, nonché la celebre sentenza della Corte Costituzionale n.438 del 2008 nella quale la tematica del consenso informato è stata scandagliata ex professo, offrendosi dell’istituto del consenso al trattamento medico un quadro definitorio dettagliato: “ Il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art.2 Cost. che ne tutela e promuove i diritti fondamentali e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile” e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
La sentenza richiama poi varie fonti internazionali che prevedono la necessità del consenso informato del paziente nell’ambito dei trattamenti sanitari; di conseguenza il Giudice ha buon gioco nell’affermare che il trattamento sanitario “sarebbe, eo ipso invasivo rispetto al diritto della persona di prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare” se praticato contro la volontà del paziente. A tal proposito viene menzionato anche il Codice Deontologico approvato dal Consiglio Nazionale della Federazione Italiana degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri del 16 dicembre 2006 secondo cui, all’art.35, “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente” ed aggiunge, quale ulteriore conferma del principio della rilevanza della volontà del paziente come limite ultimo dell’esercizio dell’attività medica, “in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”.
In conclusione, afferma la pronuncia in esame, “Va dunque riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita”. Al riguardo, particolarmente interessante come la sentenza sul punto valorizza e qualifica il rifiuto opposto dal Testimone di Geova a ricevere trasfusioni di sangue, puntualizzandone la sua “peculiarità” e mutuando dalla Cassazione n.23676/2008 afferma che “in tal caso medico è obbligato alla desistenza da tale terapia posto che, in base al principio personalistico, ogni individuo ha il diritto di scegliere tra la salvezza del corpo e la salvezza dell’anima”.
Lo stato di necessità
Il Tribunale di Termini Imerese ha escluso in punto di fatto “la ricorrenza di un pericolo imminente di danno grave alla persona, non essendo documentati in cartella clinica né la presenza di fattori di rischio o di inadeguati meccanismi di compenso né una compromissione delle funzioni vitali” della paziente .
Tuttavia, secondo la sentenza in esame, lo stato di necessità non è da ritenersi giuridicamente applicabile neppure in ipotesi di imminenza di una situazione di grave pericolo alla persona indilazionabile e cogente. Afferma la pronuncia che, a prescindere dalla sussistenza o meno del pericolo di vita, nel caso di rifiuto manifestato dal paziente a trattamenti sanitari (come quello del caso di specie) non è mai invocabile dal medico la scriminante dello stato di necessità.
Viene così scolpito il perimetro dello stato di necessità, affermando che “non esiste, infatti, nel nostro ordinamento un soccorso di necessità cosiddetto coattivo, che appunto possa travalicare la contraria volontà dell’interessato, posto che il perimetro della scriminante dello stato di necessità, alla luce dei sopra richiamati principi costituzionali [n.d.r. artt. 2, 13, 19 e 32] è rigidamente circoscritto all’ipotesi in cui il paziente non sia in grado - per le sue condizioni - di prestare il proprio dissenso o consenso, come pure chiarito dalla costante giurisprudenza di legittimità” .
I poteri e i doveri del medico trovano fondamento nel consenso del paziente e questo non è “mai sacrificabile”. Infatti, per il Giudice siciliano l’esimente non può essere invocata neppure a livello putativo in considerazione del dissenso/rifiuto della persona offesa … che non legittimava … a intervenire “in corpore vili” contro l’espresso volere della paziente.
Pertanto, l’unico caso in cui è possibile ritenere operante detta scriminante è quello in cui il paziente versi in una situazione di incapacità di manifestazione del volere e non abbia espresso in precedenza nessuna volontà circa il quadro clinico riconducibile al pericolo imminente e attuale di danno grave alla persona (Cass. Englaro 21748/2008).
La configurazione del reato di violenza privata nell’attività medica
Dopo aver affrontato preliminarmente, per ovvi motivi logici, le suindicate questioni, la sentenza procede con la disamina della specifica fattispecie del reato di violenza privata. Come noto, perché possa ritenersi sussistere il reato di cui al 610 c.p. occorre che siano chiaramente individuati due elementi: la condotta violenta e l’evento, ossia il “pati” che la persona è costretta a subire contro la sua volontà.
Richiamando sempre le Sezioni Unite “Giulini” del 2009, rileva che è stato “ribadito in maniera chiara e inequivocabile il principio della sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato in corpore vili “contro” la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell’altrui volere”.
La sentenza identifica il requisito della violenza in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di determinazione e di azione della parte offesa e si riporta alla Cass. pen., sez.V, 3 marzo 2009 n. 11522, “che ha ribadito come l’interesse tutelato dall’art. 610 c.p. sia la libertà morale, da intendersi come libertà di determinarsi spontaneamente”.
La “condotta violenta” quindi si ravvisa in tutte le manovre poste in essere al fine di introdurre l’ago cannula in vena e quindi nel corpo della paziente, l’“evento di coazione” si realizza nell’immissione in circolo del sangue all’interno del corpo della stessa e quindi nell’emotrasfusione.
Il primario condannato, in ordine al reato, è qualificato come il “mandante” della violenza privata, essendo egli pienamente cosciente di tutte le manovre che si sarebbero necessariamente compiute da parte della longa manus degli infermieri funzionali per raggiungere lo scopo, ossia far subire alla paziente un trattamento sanitario da questa avversato, “compreso il toccare… il corpo della paziente”.
Per individuare l’elemento psicologico del reato, il giudice fa in particolare riferimento alla “falsa rappresentazione” della realtà che il primario ha fornito al P.M. allo scopo di ottenere una “autorizzazione” alla trasfusione, ossia che il trattamento emotrasfusionale fosse necessario per salvare anche la vita del feto, quando la sua morte era stata già accertata ore prima. Un comportamento mendace, teso a fuorviare, che viene stigmatizzato dal giudice.
Conclusioni
Secondo il Tribunale di Termini Imerese, l’analisi della giurisprudenza scolpisce dunque il principio della volontà del paziente come limite ultimo (non valicabile e non sacrificabile) dell’esercizio dell’attività medica; invero il criterio di disciplina della relazione medico-malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal sanitario.
Pur se il rifiuto di emotrasfusioni o di trattamenti sanitari possa comprensibilmente generare perplessità nei medici e conflitto interiore con quello che riterrebbero opportuno fare secondo la loro scienza, il diritto deve invece dare rilevanza a quello che è consentito fare e protezione a colui che ha il diritto di decidere: il paziente. Né pare sostenibile che possa residuare nel medico un’obiezione di coscienza nel caso di rifiuto al trattamento da parte del paziente. Infatti, da decenni sul piano etico e deontologico il Codice di deontologia dei medici italiani distingue chiaramente il rifiuto del trattamento dai casi di eutanasia. Il medico può e deve opporsi di praticare trattamenti che provocano direttamente la morte del paziente; mentre nel caso di dissenso espresso del paziente lo stesso Codice stabilisce il divieto per il medico di continuare i trattamenti rifiutati. D’altronde, l’obiezione di coscienza può consistere nel rifiuto di fare qualcosa e non nell’imporre a un altro una “violenza etica” ossia forzarlo, costringerlo, fargli subire sul suo corpo quello che si ritiene giusto ancorché in base alla propria scienza medica.
A detta sentenza, benché non contenga alcun richiamo alla recente legge 27/12/2017, n. 219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, deve essere senza dubbio riconosciuto il pregio di porre un punto fermo nell’affermazione in concreto sia dei diritti del paziente sia della tutela di tutti i medici che curano secondo il principio di “alleanza terapeutica” nel rispetto della dignità e del valore della “persona umana”.