Il danno differenziale, risarcibile al lavoratore, è ottenuto dalla differenza tra quanto corrisposto dall'Inail quale indennizzo per infortunio o malattia professionale e quanto si può richiedere al datore o al responsabile del sinistro.
Il danno differenziale spetta ai lavoratori che dimostrino di aver subito, in ragione di un fatto illecito commesso dal datore di lavoro o da un terzo, un danno maggiore rispetto a quello che l'Inail gli ha risarcito.
Il calcolo del danno differenziale da invalidità permanente si ottiene sottraendo dal valore monetario dell’invalidità complessiva, inclusiva di menomazione preesistente e di quella causata dall’illecito, il valore monetario di quella preesistente all’illecito. Parametrare il risarcimento alla mera differenza dei punti percentuali, senza convertirli precedentemente in somme di denaro, comporta una sottostima del danno da risarcire.
Con una recente sentenza riguardante il risarcimento dei danni derivanti da trattamento diagnostico errato, la Corte di Cassazione si è soffermata sui criteri utilizzati per il calcolo del danno differenziale.
FATTO
Con decisione di primo grado confermata in Appello, veniva riconosciuta a un uomo una somma a titolo di risarcimento per i trattamenti ortopedici e traumatologici errati che avevano comportato un aggravamento della frattura riportata a seguito di un incidente. La somma riconosciuta era stata commisurata alla percentuale di invalidità ottenuta sottraendo dalla percentuale complessiva accertata dal ctu quella ascrivibile ai postumi permanenti che sarebbero comunque derivati dall'incidente.
CASSAZIONE
Ricorre per Cassazione il danneggiato, lamentando l'errata quantificazione del danno, operata disattendendo i principi in materia di danno differenziale. In casi come quello di specie, la Corte, condividendo la tesi del ricorrente, afferma che ‹‹l'apprezzamento delle menomazioni policrone “concorrenti” […], va compiuto stimando prima, in punti percentuali, l'invalidità complessiva, risultante dalla menomazione preesistente sommata a quella causata dall'illecito e poi quella preesistente all'illecito, convertendo entrambe le percentuali in una somma di denaro, con la precisazione che in tutti quei casi in cui le patologie pregresse non impedivano al danneggiato di condurre una vita normale lo stato di “validità” anteriore al sinistro dovrà essere considerato pari al cento per cento; procedendo infine a sottrarre dal valore monetario dell'invalidità complessivamente accertata quello corrispondente al grado di invalidità preesistente, fermo restando l'esercizio del potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa secondo la cd. equità giudiziale correttiva od integrativa››.
Il giudice di prime cure aveva, invece, quantificato il danno commisurandolo ad una percentuale di invalidità, senza calcolare il valore monetario dell'invalidità complessiva, da cui sottrarre il valore monetario corrispondente a quello causato dalle menomazioni preesistenti concorrenti (la frattura ossea così come causata dall'incidente occorso).
La ratio di questo metodo di calcolo è che rappresentano un danno risarcibile le funzioni vitali perdute e non il grado di invalidità, che ne rappresenta solo una misura convenzionale; ebbene, mentre la misura convenzionale cresce secondo una progressione aritmetica, le privazioni delle funzioni vitali crescono in misura più che proporzionale rispetto a tale misura e, pertanto, ad invalidità doppie corrispondono perciò risarcimenti più che doppi. Un metodo di calcolo basato solo sulla percentuale di invalidità e non sul corrispondente valore monetario, finiscono per frustrare tale principio. Ecco perchè la Cassazione accoglie il ricorso e cassa la sentenza con rinvio.